Impegnato in un tour mondiale che si chiuderà all'Arena di Verona, dal vivo continua a cantare solo nella nostra lingua. Perché, anche se la sua carriera è iniziata a San Francisco, le sue radici restano padane. E ai giovani dice: "E' molto più dura di un tempo, ci vuole un'autostima enorme per non lasciarsi abbattere"

Ventidue date in un anno all’Arena di Verona sono un record. Il suo “Black Cat World Tour” è partito da lì proprio dodici mesi fa e adesso ci ritorna con altri sei concerti, dal 20 al 25 settembre (il giorno del suo compleanno), per un totale di 220mila spettatori. Anzi, prima c’è stata la partecipazione all’evento del 6 settembre, il grande tributo a Luciano Pavarotti che nel 1992 convinse a cantare nella sua “Miserere”.

Nel frattempo Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, ha già toccato Nord America, Oceania, Asia, Africa e naturalmente Europa. Poi farà ancora qualche chilometro per raggiungere Argentina, Paraguay e Brasile. Ne parliamo mentre si trova a Oslo, poco prima delle prove che anticipano l’ennesimo concerto. Del suo rapporto con l’Arena e, soprattutto, di come è iniziata e proseguita la sua carriera di artista italiano all’estero. «L’Arena è un posto magico, storico, di grande prestigio. Era un sogno che avevo da tanti anni, quindi sono contento di averlo realizzato. La scelta di essere proprio lì, stanziali come fa la musica classica, è dettata anche dall’acustica e dalla possibilità di avere un contatto diretto con il pubblico, quasi di potersi abbracciare».

Il suo successo è iniziato proprio all’estero: da un’esperienza in California all’inizio degli anni Ottanta.
«Avevo partecipato due volte a Sanremo, con risultati scarsi, e la mia casa discografica non credeva che in Italia ci fosse spazio per un artista italiano che attingesse al blues, al soul, al rythm and blues, con la mia voce e le mie sonorità. Mi consigliavano caldamente un genere più melodico, con il quale non mi trovavo affatto a mio agio. Insomma, le cose non andavano per il meglio e convinsi la produzione a mandarmi a San Francisco con un budget davvero molto basso, ma per fare un disco come volevo io. Tornai con l’album “Zucchero & The Randy Jackson Band” (1985, ndr). Conteneva anche “Donne”, che diventò un grande successo. E da lì è iniziata tutta la storia».
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Anche quando è in tournée all’estero canta sempre in italiano?
«Lo spiego in tutti i concerti. Ho registrato anche versioni inglesi e spagnole di alcuni dei miei brani, però dal vivo li canto solo in italiano. Inserisco in scaletta al massimo due o tre canzoni “straniere”, ma le scelgo tra quelle che sono nate proprio così. Qualcuno potrebbe dire che non capisce i testi, ma la musica parla, ha un linguaggio proprio, e non c’è bisogno di comprendere tutte le parole. L’importante è che arrivi qualcosa di emozionante, tant’è vero che poi in tutto il mondo cantano con me, anche se l’italiano è più o meno corretto. Noi accettiamo di non capire ogni brano straniero che ci propongono e che magari ci piace tanto, quindi possono farlo anche all’estero. E poi, senza voler passare per presuntuoso, la musica lirica è cantata ovunque in italiano, e non le manca certo il pubblico».

È stato sempre così?
«All’inizio no. All’inizio cantavo molto di più in inglese per assecondare manager e discografici preoccupati. Poi mi sono ricordato delle parole di Miles Davis, con il quale ho registrato “Dune Mosse”. Di quando nel 1987 mi disse: “Mi piace la tua voce, quello che scrivi, la tua musica. Ma mi piace molto di più quando canti in italiano”».

Nonostante collaborazioni internazionali con personaggi come Sting, Eric Clapton, Peter Gabriel, B.B. King, U2, Iggy Pop, e nonostante lei trascorra la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, vive a Pontremoli, sull’appennino tosco-emiliano.
«Io sono un padano. Sono nato nella “bassa”, a Reggio Emilia, e ho radici italiane molto profonde. Vado spesso nel sud degli Stati Uniti e prediligo posti come New Orleans e Memphis perché li ho avuti sempre nel cuore. Però abito in Italia, per gli affetti, il clima, la bellezza, la storia, e naturalmente anche per il cibo. All’inizio della carriera sarei potuto andare a vivere in Inghilterra o in America per l’ispirazione, per arricchirmi musicalmente, ma la verità è che forse non ho mai sentito l’esigenza di trasferirmi, mentre ho quella di restare legato alla mia italianità».

Ma oggi un artista fa più o meno fatica di un tempo a emergere?
«È più difficile rispetto a quando ho iniziato io. L’industria è in ribasso e non vende lo stesso numero di dischi di una volta. Le case discografiche non investono più a lunga gittata su un progetto che magari ha bisogno di tempo per venire fuori e farsi capire. Prima, se credevano in te, ti concedevano almeno tre album: anche se con i primi due accadeva poco o niente, era una semina importante che dava spesso i suoi frutti. A me, a Vasco Rossi, a Lucio Dalla e a tanti altri è successo così. Adesso invece è cambiato tutto. Se hai successo alla prima uscita, bene, altrimenti resta poco. Poi ci sono i talent show, che sono un po’ uno specchio per le allodole. Chi esce vincitore vende molto sulla scia della popolarità che ha acquisito durante i mesi del programma, ma capita spesso che i numeri diminuiscano, l’attenzione cali e l’investimento si spenga».

Incontra molti giovani musicisti italiani quando è all’estero?
«Soprattutto in città come New York, San Francisco, Toronto, dove ci sono grandi comunità italiane. C’è sempre qualcuno che incroci o che ti aspetta alla fine del concerto per fare due chiacchiere, per darti un cd e parlarti del suo curriculum. Mi capita anche nei ristoranti italiani, che prediligo perché la sera restano aperti più a lungo rispetto agli altri. Ti raccontano le loro storie e quello che li ha portati a trasferirsi per fare musica. Alcuni sono riusciti in quello che desideravano e lavorano molto. Non solo musicisti, soprattutto ingegneri del suono o addetti dell’industria discografica. Faccio sempre molta attenzione a chi incontro e a cosa ascolto quando sono in giro».

Come quando ha chiesto a Lisa Hunt di diventare la sua corista?
«Ero a Londra e avevo perso l’aereo. Mentre aspettavo quello successivo, decisi di fare una passeggiata a Covent Garden. C’era questa ragazza che cantava all’aperto, e cantava alcuni brani di Aretha Franklin in modo incredibile. Così la invitai a partire per il tour: lei all’inizio quasi non ci credeva. Ma è capitata la stessa cosa con la corista Tonya Boyd Cannon, che ho sentito a New Orleans in trio, e ancora prima con James Thompson, che è un grande sassofonista. Sono sempre alla ricerca di musicisti che vengono dalla strada perché sono i più genuini, perché hanno passione, voglia di uscire fuori e fare parte di un progetto importante. Ti danno tutto».

Cosa consiglia ai musicisti italiani che le domandano il punto di vista di chi, in sostanza, ce l’ha fatta?
«È sempre difficile dare consigli. Una volta, ai miei tempi, avrei detto di fare come me: tenere duro, insistere, non mollare, e se hai del talento, se hai il motore che gira prima o poi ce la fai. Di questi tempi potrei dire le stesse cose ma aggiungerei che avere l’arte dentro non risolve il problema. Oggi è molto più dura, ci vuole un’iniezione di autostima enorme per non lasciarsi abbattere. Poi magari, all’improvviso, combaciano cinque elementi tutti insieme, capitanati dall’occasione o dal momento giusto, e in un colpo solo succede tutto quello che non è accaduto in dieci anni».

E a quelli che pensano di lasciare l’Italia per trovare spazio fuori?
«Se fossi giovane e volessi andare via, mi preparerei a fare l’emigrante della musica. Secondo me non è più tempo di dire “voglio fare jazz e faccio solo jazz”. Mi farei conoscere in tutti gli ambiti come un artista preparato. Se volessi fare jazz e mi capitasse una sessione rock, la prenderei sicuramente. Bisogna essere più aperti per farsi notare ed entrare nel giro, innanzitutto per non demoralizzarsi e per vivere comunque di musica. All’obiettivo iniziale si arriva piano piano e senza demordere. Che forse è un po’ anche la mia storia. Ho cominciato facendo le canzoni che voleva la casa discografica e solo dopo ho fatto gli album che desideravo io, quelli che volevo davvero. Però è stato importante avere un contratto, essere visto e tirare fuori la testa. Purtroppo sono tempi duri. E se la musica è davvero la tua missione, devi prepararti a soffrire».