Niente pulpito, salotto o cattedre. Serve stare davvero a contatto con la realtà e trasformarla in arte. Continua il dibattito d'autore ospitato dall'Espresso sul ruolo di questa figura ai giorni nostri

Mentre penso a quale idea di intellettuale io abbia in questo momento, sto camminando per le strade di Berlino. Sui tetti di un albergo c’è una scritta blu: “Stay Individual”. La vedo con quella luce della sera che fa tutto più chiaro. La appunto sul taccuino e la traduco pensando a cosa mi voglia dire: Sii unica, distinguiti, non mischiarti a quella massa indistinta? Ecco, sì, eccelli, fatti vedere qui e sapranno chi sei, così speciale, originale, un personaggio.

E mi viene da pensare che questo tipo sganciato dal mondo, unico nel senso di uno e solo, speciale nel senso di specie protetta, individuale ma ho idea che voglia dire individualista, non lo chiamerei intellettuale. Lo so che corre e ricorre l’opinione che un intellettuale (uso il maschile ma questo pregiudizio che sia uomo magari lo smonto più in là) sia un po’ sopra le parti cioè elitario, sapiente e quindi magari un po’ scostante, rigoroso quindi anche un po’ rigido, più colto e quindi superiore. Insomma, abbastanza fuori dal mondo, e quindi imputabile di non averne alcuna idea, di non avere quei piedi per terra che abbiamo tutti, di non respirare la nostra aria ma quella un po’ chiusa e privilegiata di certe stanze, a ridosso di pulpiti, cattedre e salotti.

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E mentre penso a quanto distante sia questo genere di intellettualità da ciò che mi piace pensare sia, mi viene in mente un altro stare, quello di un intellettuale come John Berger, con la sua idea di essere un racconta-storie, uno capace di cogliere il senso doloroso e mai disperato del mondo e di farne racconto. Ecco lui, a quello Stay Individual oppone il suo Stay Real, cioè Resta il più possibile legato, attaccato alla realtà. Guardaci dentro, fino in fondo. Anzi, toccare è il verbo che usa, tocca, passa attraverso le cose del mondo, con tutta l’esperienza della vita. Non esporre il pensiero, ma esponiti, al limite della tua ignoranza, e stai lì, a voler sapere di più senza semplificare ciò che è complesso, col rischio che quel pensiero non arrivi a tutti, che arrivi male, che costi fatica, la stessa che è costata a chi l’ha scritto e pensato.

Una grande scrittrice, Svetlana Alexievich, dice più o meno lo stesso. Lei che raccoglie le storie dei diseredati, degli offesi, dei delusi dalla Storia, sostiene che il lavoro intellettuale è avvicinarsi sempre più alla realtà senza incrostazioni emotive ma senza perdere umanità. Mettendosi in ascolto, un esercizio di attenzione, empatico, perfino compassionevole, un patire insieme, che avvicina, che fa proprio il destino di altri, che rende prossimi. Per dire che intellettuale è chi si sposta e non solo in senso metaforico, culturale, ma proprio fisicamente, con quel corpo che è sempre un corpo politico. E si domanda: come trasformare in arte, in scrittura, in pensiero, qualcosa che nella vita reale fa orrore, fa svenire? Qui sta il lavoro dell’intellettuale, trovare il modo.

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Ecco, se mi chiedete a chi mi riferisco con intellettuale, non posso non pensare a scrittori così. Niente narcisismo, così vicino al cinismo, niente Io che So vi dico cosa dovete pensare voi che non sapete. Non il pulpito ma la cella, la stessa condizione di prigionia, di contraddizione, di confusione di tutti, a cui opporre la ricerca di una liberazione individuale, certo, ma collettiva. Un modo di essere e di stare al mondo che magari il tempo e la storia non hanno alcuna intenzione di accogliere, che è pieno l’elenco di questo genere di intellettuale scomodo e refrattario al potere che non viene capito, che viene punito, umiliato, non ripagato, molto anche non pagato, esiliato, e che magari è perfino capace di fare di questo mancato riconoscimento una risorsa di libertà, di autonomia, di felicità.

Perché, intanto, mentre questa creatura pensante sta al mondo tentando di dargli senso, cosa facciamo noi? La vogliamo, la cerchiamo, ci serve? Vogliamo veramente che ci dica cosa pensare o cosa votare? O non vogliamo piuttosto che ci inviti a ribaltare le nostre vite, a cambiare sguardo su di noi e sulle cose, a sentirci coinvolti, vivi? Se la portiamo con noi un giorno o per tutta la vita, parte della nostra storia e del nostro tempo, dell’immaginario, del sogno, della spiritualità, del fare la spesa e fare l’amore, non è questo che poi ci orienta politicamente?

Se guardo i libri che ho portato con me in questo spostamento, lo chiamo così perché è fisico quindi mentale, trovo Virginia Woolf, Susan Sontag, Paul B. Preciado, Maria Nadotti, John Berger, Albert Camus, Marina Cvetaeva, Judith Butler. Che sono profeti, maghi, stregoni, e dovrei però aggiungere il femminile di queste definizioni, perché insomma meno male che intellettuale finisce per “e” e non ho bisogno di inventarmi una parola poco sonora per dire delle intellettuali che hanno cambiato la mia vita. Donne che non hanno pensato solo alle donne e sulle donne ma al mondo, al potere che lo gestisce inventando altre forme. Una su tutte quella femminista che dismette l’astrattezza di un pensiero teorico politico economico sganciato dalla vita reale, dall’affettività, dalle emozioni. Un pensiero politico che parte dalla materialità dei corpi, dalle pulsioni, i desideri, la sessualità. Perché la nascita, la morte, l’amore, la sessualità, il linguaggio riguardano il vivere individuale esattamente come quello sociale collettivo. Il destino di un individuo e di una società, di un uomo una donna e tutti gli altri, come direbbe Preciado, di un paese e del mondo intero hanno a che fare con la complessità di quello che siamo, essenzialmente corpi, mutanti.

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14/3/2018
Mentre scrivo sono al tavolo di un bar nel quartiere di Schöneberg, ho alle pareti i ritratti di Marx, Che Guevara, una foto celebre di Tina Modotti, e il ritratto di Rosa Luxemburg - una certa direzione politica, in effetti, e una certa attenzione al femminile rappresentato, sì. Ho con me “Realismo capitalista”, il bellissimo saggio di Mark Fisher, intellettuale inglese morto suicida un anno fa che sapeva partire dal testo di una canzone punk, da un film, dalla sua stessa vita per raccontare il mondo, per criticare il sistema politico economico in cui viviamo.

Mi dice che viviamo male, in una depressione di massa che ci fa cinici, allegri conformisti, narcisisti tossici intrappolati in solitarie reti fintamente sociali. Sì, direi che è così. Ma non si ferma, dice che possiamo attuare una strategia di resistenza e liberazione da quel “Non c’è alternativa” che il neoliberismo impone da almeno quarant’anni. Dice che possiamo smontare l’ideologia capitalista pezzo per pezzo rivelandone il meccanismo perverso che è riuscito a fare dei suoi punti deboli i suoi punti di forza: noi stessi.

Continuo a leggerlo, e mi dico che starà con me un bel po’. Perché ho la sensazione di averne incontrato un altro, di intellettuale. Qualcuno che libero ha voglia di vedere libera anche me.