Marin Alsop, Beatrice Venezi, Oxana Lyniv, Speranza Scappucci. Mai così tante, e in ascesa in tutto il mondo, le donne che dirigono musicisti. E al cinema il ruolo è di Cate Blanchett

Sollevata sotto forma di diatriba linguistica, e di genere, due anni fa, la questione: “Direttore” o “Direttrice” d’Orchestra? è stata risolta dall’Accademia della Crusca con il riconoscimento della liceità di entrambe le forme, pur ammettendo l’improprietà dell’uso del maschile “Direttore” quando sia una donna sul podio a tenere la bacchetta in mano.

 

La potente interpretazione di Cate Blanchett nel ruolo del personaggio (inventato) di Lydia Tár riporta in primo piano il tema di una professione artistica in grande ascesa nella sua versione al femminile, riproponendo gli stessi temi e nodi in precedenza discussi dai linguisti.

Più che questione di genere, il dato è un palmare progressivo affermarsi delle donne che dirigono orchestre. Risultato di un cammino non facile ma in ascesa: in tutta Europa, da un sei per cento di direttrici donne, negli ultimi anni si è passati al dieci. Percentuali comprensive di traiettorie luminose, anche oltreoceano, con la statunitense Marin Alsop, Direttrice dell’Orchestra di Stato di São Paulo dopo avere diretto London Symphony Orchestra e London Philarmonic, tra i rarissimi direttori chiamati a farlo – e qui l’uso del maschile è obbligato, trattandosi di onore e privilegio concesso davvero a pochi, uomini o donne, senza distinzione.

Perfezionatasi con Leonard Bernstein, proprio come Lydia Tár nella finzione del film (dal ruolo impersonato da Cate Blanchett, Alsop si è dichiarata oltraggiata sia come professionista che come lesbica) conta dalla sua una parabola professionale esemplare, dagli albori di prima direttrice di grandi orchestre americane – New York, poi Los Angeles, Baltimora – sino alla conquistata reputazione di icona presa a modello da ogni donna che intenda intraprendere l’ardua carriera.

 

Accanto a ferrea, estenuante disciplina, una professione che conta insieme alle performance sul podio altre tappe e conquiste: anche interiori. Già visivamente l’essere a capo di un’orchestra trasmette un’idea di forza dominatrice, e come ogni esercizio di potere presuppone massima vigilanza su di sé. Per assumere atteggiamenti e posture dimostrativi di quelle grinta e autorevolezza che devono essere di un buon direttore d’orchestra, va cercato e trovato un dosaggio delicatissimo tra autorità e capacità di ascolto. Avere polso, ma anche talento di entrare in relazione con gli altri, con ciascun singolo membro dell’orchestra, intanto coordinando la sintonia generale di un gruppo che è un micromondo – in scala ridotta, una collettività.

Possedere piglio ma anche generosità, centratura e insieme altruismo: un equilibrio psicologico sottile, raggiungere il quale per ogni donna è una sfida, lanciata a sé stessa per prima.

 

Strade intraprese sin da giovanissime, spesso muovendo i primi passi non come direttrici, piuttosto da musiciste: così per l’ucraina Oxana Lyniv, arrivata sul podio dopo anni passati a studiare flauto, violino, canto. Dirigere era una delle prove in programma al Conservatorio a Leopoli, per lei un colpo di fulmine, inseguito in principio senza la certezza fosse strada accessibile alle donne. Diversi incarichi, un ultimo come Direttrice per l’Opera di Graz prima che a Lyniv venisse affidata la direzione del Teatro Comunale di Bologna, prima donna a capo di un ente musicale italiano.

Oppure, strada composita di artista creativa e dai talenti plurimi, come per la poliedrica direttrice canadese Barbara Hannigan (vincitrice del Gramophone Awards 2022), la cui sublime idea di unire a canto e a danza la direzione d’orchestra entusiasma le platee, lei incantevole mentre modula la voce di soprano e nel frattempo volta le spalle all’orchestra che pure tiene in pugno, donne e uomini che senza vedere, con la gestualità delle mani guida e dirige, anche quando con pochi perfetti cenni da quella stessa orchestra riesce a farsi accompagnare nel canto.

E poi, strade intraprese da chi sente di essere pioniera, e insieme anche orfana: la francese Claire Gibault riflette nel corso di pagine autobiografiche (“Direttrice d’orchestra”, ADD 2023) cosa significhi esercitare una professione priva di modelli precedenti da poter seguire o smentire. Un’orfanezza a lungo compensata da sforzi immani pur di acquisire prestigio e ottenere rispetto come donna, agli inizi però snaturandosi anziché coltivare le parti migliori di sé. «Prima, tecnicamente controllavo tutto» dice Gibault; «utilizzavo strategie per avere autorità. A partire dal momento in cui ho cominciato ad amare le persone davanti a me, solo allora ogni cosa fuori e dentro ha preso a trasformarsi». Negli anni di direzione dell’Opera di Lione, fine costante è stato «comprimere la femminilità». Solo in seguito, grazie a una lunga, molto felice collaborazione come assistente di Claudio Abbado («uomo profondamente amico delle donne, mai ambiguo, né in nessun momento misogino») quel continuo contenersi è diventato consapevolezza, maturità espressiva, liberatorio svincolarsi da qualsiasi dinamica di genere sessuale. Perché se la strada per la parità in questa professione più che in altre dell’universo musicale è ancora lunga, e frastagliata, il punto non è quanto di femminile o maschile entri in gioco al momento di dirigere; piuttosto, forza espressiva e capacità di dialogo con i singoli membri dell’orchestra. Conquistare la completezza di una umanità matura, ecco ciò che più rende autorevole chi è a capo di un’orchestra, Direttori o Direttrici che si sia. Gibault nel 2011 ha creato “La Maestra”, concorso internazionale presso la Paris Mozart Orchestra e in collaborazione con la Philarmonie de Paris. Vi partecipano giovani aspiranti Direttrici che arrivano a Parigi da tutto il mondo, valutate da una giuria rigorosamente mista che le seleziona e premia in nome di stesso criterio, di un carisma inteso come ascolto, capacità di interazione ben prima che duro e autoritario tenere il posto di comando.

 

Grandi solidarietà femminili durante le audizioni de “La Maestra”, perché come che sia, quella di Direttrice d’orchestra è professione nuova che a fatica ma con forza va affermandosi, ne è convinta anche la giovane italiana Beatrice Venezi, la stessa che sul palco dell’Ariston con il chiedere di essere chiamata “Direttore” evocava il rischio discriminatorio della declinazione al femminile del termine.

L’intervista
Beatrice Venezi: «La destra riconosce il valore della cultura musicale per il Paese. La sinistra no»
27/6/2022

Come spesso accade, le risposte vanno cercate negli inizi, in figure ancora leggibili in filigrana sull’invisibile mappa del tempo. Antenata, una almeno esiste: Antonia Brico, nata nel 1902 e bambina da Rotterdam emigrata in California. Da una formidabile carriera di pianista passò a quella di Direttrice d’orchestra mossa da impulso fatale e assolutamente naturale. Era il 10 gennaio 1930 quando in Germania diresse una prima volta i Berliner Philarmonik, applauditissima; poco tempo dopo, due concerti consecutivi con la Metropolitan Opera a New York la consacrarono al successo offrendole tante esibizioni in giro per il mondo. Platee estasiate, entusiastiche rassegne stampa.

Pioniera e sola, Antonia Brico conobbe della solidarietà femminile anche le insidie: a Genova, lei stessa racconta in un documentario monografico di recente restaurato (“Antonia: a Portrait of the Woman di Judy Collins”), da una signora molto influente si sentì chiedere scusa dei pensieri (pregiudizi) nutriti prima di vederla dirigere. Il volto allungato, il grande naso, gestiva la bacchetta con gesti vigorosi, gli occhi dardeggianti a dire il dominio – del podio, della musica, di ogni singola partitura delle tante orchestre dirette nel corso della vita. Fondò la New York Women Symphony Orchestra, ma anche difese l’“asessualità” (sexless) del dirigere, nel corso di un infuocato dibattito con il direttore spagnolo José Iturbi, sostenitore di “limiti temperamentali” delle donne musiciste.

 

Oggi sarebbe contenta di tanto riuscire e realizzarsi di donne a capo di orchestre, nella consapevolezza che trattasi di professione per cui serve fluidità anzitutto. Rigorosa amorosa attenzione, fuoco e acqua nell’interpretazione.