L'Alto commissario dell'Onu per i rifugiati, ha celebrato la Giornata mondiale a Kabul. Perché con 2,7 milioni di rifugiati all'estero, centinaia di migliaia di sfollati interni e una storia decennale di migrazioni forzate, l'Afghanistan rimane una delle più grandi sfide umanitarie per la comunità internazionale (Foto di Alessandro Penso)
Kabul - Filippo Grandi, l’Alto commissario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha deciso di trascorrere in Afghanistan la Giornata mondiale del rifugiato che si è celebrata il 20 giugno in tutto il mondo. É arrivato domenica a Kabul, e
il giorno successivo ha incontrato rappresentanti istituzionali e delle comunità locali. Un segnale importante, per ricordare all’opinione pubblica e alla comunità internazionale un conflitto frettolosamente archiviato e le sofferenze di un’intera popolazione. «Sfortunatamente, la crisi dei rifugiati afghani è stata ripetutamente dimenticata nel corso della storia», ha dichiarato Filippo Grandi. «Viene ricordata soltanto quando succede qualcosa di importante come l’11 settembre e, ora, l’arrivo degli afghani in Europa insieme a centinaia di migliaia di altri».
La Giornata mondiale del rifugiato segue di due giorni diffusione dell’ultimo rapporto dell’Unhcr,
Global Trends. Forced Displacement in 2015. Dati e statistiche restituiscono l’immagine di un mondo attraversato da conflitti e guerre, e di una consistente parte dell’umanità costretta ad abbandonare la propria casa, spesso il proprio paese. Secondo l'ultimo Global Trends, il numero delle persone che nel 2015 a causa dei conflitti ha dovuto abbandonare la propria casa è il più alto mai registrato finora. Sono più di 65 milioni: «se si trattasse di una nazione – recita il rapporto – sarebbe la 21esima al mondo per popolazione». Di questi 65 milioni, 40.8 sono sfollati interni ai paesi in conflitto, 6,6 milioni solo in Siria. Altri 21.3 milioni sono rifugiati e 3.2 milioni sono richiedenti asilo,
come ha documentato l'Espresso.
Il 54% del totale dei rifugiati viene da tre paesi: la Siria (4,9 milioni), l’Afghanistan (2,7), la Somalia (1,1). Sebbene il conflitto afghano e le sue conseguenze siano state dimenticate, il paese centroasiatico sconta ancora oggi le difficoltà legate a decenni di migrazioni forzate. Per ben 33 anni l’Afghanistan è stato infatti il paese che ha “prodotto” il maggior numero di rifugiati al mondo. Nel 2014 ha perso “il primato”, passato alla Siria devastata dalla guerra.
Ma i numeri delle migrazioni afghane rimangono impressionanti: rispetto all’anno precedente, il rapporto dell’Unhcr registra un incremento dei rifugiati afghani nel mondo (da 2.6 milioni a 2.7 milioni). Soltanto una minima parte cerca accoglienza in Europa. Secondo la Commissione europea, nel 2015 sono state 213.000 le persone di origine afghana che hanno raggiunto l’Europa. Un dato che rende l’Afghanistan il secondo paese per provenienza di migranti e richiedenti asilo in Europa, subito dopo la Siria. Una parte (178.230)
ha presentato richiesta di asilo in uno dei 28 paesi dell’Unione europea. Molti altri non lo hanno fatto: secondo la bozza di un documento riservato dell’Ue, nel 20015 sarebbero entrati “illegalmente” in Europa altri 223.000 afghani.
Tra questi, qualcuno sembra aver rinunciato alle “vie legali” a causa delle limitazioni sempre più stringenti: nell'Unione europea, nel 2015 i rifugiati provenienti dalla Siria hanno visto riconosciuta la richiesta di asilo nel 97% dei casi.
Per gli afghani, la percentuale era del 69%. Le politiche dei singoli Paesi europei tendono a limitare ulteriormente l'accoglienza ai profughi afghani.
E proprio sulle responsabilità dell’Europa ha insistito Filippo Grandi nel corso della sua visita a Teheran, in Iran, avvenuta il giorno prima di raggiungere Kabul. L’Alto commissario ha biasimato coloro che «istigano l’opinione pubblica contro rifugiati e migranti», colpevoli «di creare un clima di xenofobia davvero preoccupante nell’Europa attuale».
Un clima che non è giustificato dai dati: secondo il Global Trends, l’86% dei rifugiati mondiali viene accolto in paesi dal reddito medio o basso, mentre l’Europa gioca un ruolo soltanto marginale nell’accoglienza. Un ruolo che cerca di ridurre ulteriormente. Prendiamo il caso dell’Afghanistan. L'Unione europea da alcuni mesi esercita insistenti pressioni sul governo del presidente Ashraf Ghani per limitare le partenze degli afghani, e propone accordi bilaterali sul rimpatrio volontario di quanti sono già arrivati nel Vecchio continente. Per farlo, punta sulla leva finanziaria. Secondo
un documento preparato dall'External Action Service della Commissione Europea e ottenuto dall'organizzazione non profit Statewatch, l'Unione europea avrebbe vincolato la continuità del proprio impegno finanziario a sostegno delle deboli istituzioni afghane al rimpatrio di 80.000 afghani nei prossimi mesi.
Il presidente Ghani sa quanto tale sostegno sia importante. Forse anche per questo, il 31 marzo
nel corso di un'intervista alla Bbc si è lasciato scappare alcune frasi che sono subito rimbalzate sui media e sui social network di tutto il paese: «non ho simpatia per chi lascia l'Afghanistan», ha sostenuto Ghani,il quale ha vissuto per quasi 25 anni negli Stati Uniti. Chi parte, ha continuato, «rompe il contratto sociale», e non riconosce i sacrifici fatti dal governo e dalla comunità internazionale per stabilizzare il paese.
Il “quasi primo ministro” afghano Abdullah Abdullah, che dal settembre 2014 condivide con Ghani le responsabilità del governo di unità nazionale, ha incontrato a Kabul l’Alto commissario dell’Agenzia Onu per i rifugiati. Abdullah ha enfatizzato l’alto numero di rifugiati afghani nel mondo, chiesto l’aiuto della comunità internazionale e assicurato il pieno impegno del governo per affrontare il problema. Ha poi ricordato che negli ultimi mesi il numero di afghani che sono espatriati si è ridotto visibilmente. Secondo il ministro afghano per i rifugiati, si tratterebbe di una riduzione del 50% rispetto al 2014. Per Abdullah Abdullah è «un segno della fiducia nel futuro di questo paese».
Il primo ministro dimentica il ruolo giocato dalle politiche più restrittive adottate dai paesi dell’Unione europea. Lasciare l’Afghanistan è facile quanto prima, grazie a una consolidata rete di facilitatori e a rotte ormai note. Arrivare in Europa, invece, è sempre più difficile. Ottenere lo status di rifugiato, lo è ancora di più.
Le ragioni per lasciare l’Afghanistan, al contrario, rimangono le stesse:
insicurezza e mancanza di opportunità, di lavoro e di futuro. Secondo un sondaggio realizzato nelle 34 province del paese dagli uomini del Dipartimento della Difesa Usa, e reso pubblico pochi giorni fa all’interno del rapporto
Enhancing Security and Stability in Afghanistan, la popolazione afghana si sente molto più insicura di prima. Soltanto il 20% degli afghani intervistati si sente sicuro (rispetto al 39% dell'anno scorso), mentre il 42% ritiene che la sicurezza fosse migliore ai tempi dell'Emirato islamico d'Afghanistan. Quando al governo c'erano i Talebani.
Percezioni confermate da numeri certi (anche se approssimativi): secondo
l'ultimo rapporto della missione dell'Onu a Kabul, nel 2015 le vittime civili (feriti e morti) in Afghanistan sono salite del 4% rispetto all'anno precedente (3.545 morti e 7.457 feriti). Tra questi, l'11% erano donne (+ 37% rispetto al 2014) e il 26% bambini (+ 26%).
L’Afghanistan, dunque, non è un paese stabile. Eppure molti governi europei hanno deciso di adottare politiche più restrittive nei confronti di migranti e rifugiati afghani. Contravvenendo a quella responsabilità invocata a Teheran, e poi a Kabul, dall’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati.
Con la visita in Iran di domenica, Filippo Grandi ha voluto ricordare l'impegno decennale di Teheran nell'accoglienza ai rifugiati afghani. Attualmente, ci sono circa un milione gli afghani (951.000) che godono dello status di rifugiati in Iran, ma si stima che nel paese ne risiedano almeno 2,5 milioni, in modo informale. A seguito dell’incontro con Grandi, il vice ministro iraniano dell’Interno, Mohammad Hossein Zolfaqari, ha chiesto che la comunità internazionale riconosca il lavoro svolto dall'Iran. E che si impegni per facilitare i rimpatri volontari (evitando però di menzionare i rimpatri forzati di cui sono accusate le autorità iraniane).
Nel corso del 2015, recita il rapporto Global Trends, nel mondo si sono registrati circa 200.000 rimpatri volontari. Sessantuno mila riguardano cittadini afghani. La maggior parte dei quali ha lasciato il Pakistan per tornare in Afghanistan. Il “paese dei puri”, il Pakistan, ospita infatti 1 milione e seicentomila afghani ufficialmente registrati, ai quali si aggiungono quelli “informali”, che si stima siano altrettanti.
Nei giorni scorsi, Asim Bajwa, portavoce dell’esercito di Islamabad,
ha minacciato l’espulsione massiccia di tutti gli afghani residenti in Pakistan. «Sono qui da 36 anni, molti di loro vivono fuori dai campi e in modo irregolare. Vogliamo che tornino a casa», ha dichiarato Asim Bajwa. Si tratta soltanto di una mossa retorica, per ora. L’establishment militare manda un segnale a Washington: se i trasferimenti di armi e soldi previsti non arrivano, Islamabad è pronta a far collassare con una bomba demografica gli equilibri afghani. Già fragili: dal 2002, circa 5,8 milioni di rifugiati afghani hanno fatto ritorno in patria. Rappresentano il 20% circa della popolazione, e il loro re-insediamento ha provocato seri problemi negli assetti sociale, politico ed economico.
Problemi sommati a quelli degli sfollati interni. Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre, a giugno scorso erano 948.000 gli sfollati interni (103.000 quelli più recenti), il 40% dei quali costretti a ingrossare le fila dei poveri che abitano ai margini delle città principali, Kabul, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Kandahar. Secondo il Global Trends 2015 dell'Unhcr, alla fine del 2015 erano 1,2 milioni. Sono la fascia di popolazione più vulnerabile, più povera. Quella che non riesce ad arrivare in Europa.
Degli altri, coloro che potrebbero raggiungere il Vecchio continente,
sembra preoccuparsi la Nato: mercoledì scorso, a Bruxelles, durante la riunione dei ministri della Difesa dell’Alleanza atlantica, il segretario generale Stoltenberg ha fatto intendere che, se i paesi membri non assicureranno un ulteriore impegno finanziario (5 milioni fino al 2020) e di truppe per l’Afghanistan, l’Europa sarà invasa dagli afghani. Preoccupazioni molto diverse rispetto a quelle dell’Alto commissario per i rifugiati: «i rifugiati non sono un pericolo», ha ricordato Filippo Grandi. Rappresentano una risorsa. Ma rimangono una sfida per la comunità interazionale.