Dalla fuga del re delle spie comuniste Misha Wolf al fallito golpe, con Gorbaciov ormai fuori gioco. Il tramonto dell’impero nel racconto di un testimone. E la profezia del dissidente Sinjavskij sulla Russia di oggi

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Era il 28 agosto 1991 a Mosca. Poco prima della mezzanotte, all’hotel Metropol, luogo d’incontro e di soggiorno di giornalisti, spie, businessmen occidentali e rampanti capitalisti russi (ogni riferimento alle vicende italiane attuali è casuale e puramente storico) entrava un uomo né alto né basso, piuttosto bello e dall’aria di persona adusa a comandare. Aveva gli occhi azzurri e sorrideva. Accompagnato da due persone si sedeva a un tavolino del bar. Guardai la collega della tv con cui stavo chiacchierando. Lei guardò me, poi dicemmo l’uno all’altra all’unisono: «Sì, è Misha Wolf».

Michael Wolf, detto Misha, era il re delle spie comuniste e capo dei servizi segreti della Germania dell’Est. Nei libri di John le Carré, maestro del noir di spionaggio, appunto veniva chiamato Karla. Era l’uomo senza volto, fino alla fine degli anni Ottanta quasi nessuno in Occidente aveva visto una sua foto, pochissimi sapevano il nome. Da quasi un anno, dalla riunificazione della Germania, avvenuta ufficialmente nel 1990, era ricercato dalla magistratura. Si diceva che fosse scappato in Russia. Ed eccolo in carne e ossa.

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Mi alzo. Mi avvicino, mi metto accucciato accanto. Comincio a parlargli in russo, perché intuisco che per l’ex-ragazzo ebreo figlio di comunisti scappati da Hitler in Urss, questa è la lingua di cuore. Gli dico che anche io sono figlio di ebrei comunisti salvatisi in Urss dalle camere a gas. Lui mi guarda con simpatia, forse con un po’ di commozione e comincia a parlarmi. Mi dice che ora se ne deve andare via da Mosca. Era stato contattato dal Mossad ma non ha voglia di trasferirsi in Israele. Poi, uno dei suoi accompagnatori lo richiama all’ordine. Wolf mi dice che il colloquio è finito. All’indomani, nell’ufficio turistico dell’albergo vedo sul banco un biglietto aereo. Sollevo la copertina: leggo il nome e cognome, Michael Wolf. E la destinazione: Vienna. La capitale austriaca era, nel periodo della guerra fredda, il punto d’incrocio degli agenti segreti da ambedue le parti.

E per la cronaca: dopo poche settimane Wolf tornò in Germania, per affrontare una serie di processi a suo carico. Del resto, nessuno poteva proteggerlo, visto che l’Urss in pratica cessò di esistere (la dissoluzione fu ufficialmente decretata a fine dicembre 1991) mentre il partito comunista al potere fin dal novembre 1917 venne sciolto e i suoi beni nazionalizzati, pochi giorni prima della ultima bevuta di Wolf al Metropol. E per quanto riguarda questa storia: fu uno scoop mancato, nel frattempo l’ex capo dei servizi della Ddr rilasciò un’esauriente intervista allo Spiegel.

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A pensarci bene la fuga di Wolf era un simbolo, anche se piccolo, della fine di un mondo e se vogliamo di una speranza di un futuro all’insegna del sol dell’avvenire che per molte persone incarnava l’Urss. Ma era pure il segno della fine di un incubo, di un regime oppressivo che per reggersi in piedi aveva bisogno di un potente apparato di polizia, di una rete di campi di prigionia per i dissidenti, di un esercito capace di sopprimere le istanze di libertà nei Paesi vicini ma non in grado di far fronte al grande avversario e rivale, gli Stati Uniti.
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In parole povere, l’estate del 1991 segnava la disfatta definitiva del comunismo come fenomeno del secolo scorso. E la segnava con un fallito golpe, avvenuto nell’agosto di quell’anno ai danni di Mikhail Gorbaciov, l’ultimo segretario del Partito comunista e l’ultimo capo di Stato dell’Urss e che inutilmente tentò di introdurre elementi di democrazia nel corpo malato del Paese che guidava. Al golpe ci torneremo, intanto facciamo un passo indietro, fino a metà anni Sessanta.

A metà anni Sessanta dunque, in un’atmosfera lontana dal terrore che incuteva il regime di Stalin, gruppi di giovani intellettuali, poeti, scrittori, cantanti, artisti, si incontrano regolarmente a Mosca, ai piedi della statua di Vladimir Majakovskij, poeta bardo della Rivoluzione morto suicida nel 1930. Leggono poesie, intonano canzoni, discutono. La polizia segreta tollera per un po’ le adunate, ma poi c’è la svolta. Nel 1966 due scrittori, Andrei Sinjavskij e Yulij Daniel, vengono processati e condannati rispettivamente a sette e cinque anni di lavori forzati. Il carnevale della libertà, iniziato nel 1956 con la condanna di Stalin da parte dell’allora capo del Partito Nikita Chruscov (nel frattempo destituito a favore di Leonid Breznev) è finito.

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La restaurazione del vecchio ordine, con i Gulag come destinazione finale di chi critica il regime (in alternativa c’è l’espatrio e la privazione della cittadinanza o il manicomio) è in atto e riguarda tutti gli ambiti della vita. L’Urss, da un lato, compete con gli Stati Uniti nella corsa alle conquiste spaziali, ma dall’altra ha inizio una lunga epoca di stagnazione. Le tecnologie si fanno man mano sempre più obsolete rispetto a quelle occidentali, il regime è sempre più corrotto e oppressivo. Nel 1968, viene invasa militarmente la Cecoslovacchia per stroncare un tentativo di rendere il socialismo democratico. Permane la servitù della gleba: i contadini nei kolkhoz, fattore collettive, non hanno diritto di cambiare residenza, di spostarsi in città, di disporre della loro vita. Intanto cresce anche il dissenso, cominciano a circolare libri e riviste stampati clandestinamente (il fenomeno viene denominato “samizdat”), nascono gruppi di difesa dei diritti civili.

E anche in seno all’establishment si sentono critiche: un solo esempio, Andrej Sacharov, padre della bomba atomica, passa a far parte dei gruppi dei democratici. Il celebre fisico rinuncia ai privilegi dovuti al suo rango per combattere per la libertà. Infine, crescono le disuguaglianze. I membri della nomenklatura (così vengono chiamati coloro che fanno parte della leadership del Partito o della stretta cerchia di scienziati e letterati corteggiati dal regime) vivono in un benessere da favola, hanno a disposizione limousine con autisti, negozi pieni di ogni bene (ma basta una telefonata per rifornirsi di caviale, non occorre andarci di persona), vivono in appartamenti grandi e luminosi, nei palazzi di prestigio, trascorrono i weekend nelle dacie in campagna e le vacanze nelle ville in Crimea.

I cittadini comuni in compenso abitano nelle “komunalki”, appartamenti, dove vivono più famiglie, ciascuna in una stanza, con la cucina e il bagno in comune. Per approvvigionarsi si fanno ore di fila davanti ai negozi, al posto della carta igienica si usano giornali e manca perfino il sapone. Un sociologo francese, Emmanuel Todd, in un libro pubblicato a metà anni Settanta, analizzando le statistiche (quelle ufficiali per quanto falsificate) e i trend demografici (il tasso di natalità in discesa, il tasso di suicidi in ascesa) prevede un rapido tramonto e la disgregazione dell’Urss.
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Questa è la situazione che si trova davanti nel 1985, il neoeletto segretario generale del Partito comunista Mikhail Gorbaciov. Il giovane leader, all’epoca ha appena 54 anni, subentra a una generazione di governanti definita “gerontocrazia”, per l’età avanzata e la salute malferma. Gorbaciov, arrivato al potere grazie all’appoggio di una parte del servizi segreti, mette in cima alle priorità due questioni: la lotta all’alcolismo e il contrasto alla corruzione. Originario delle zone meridionali della Russia, il nuovo leader parla però anche una lingua diversa dai suoi predecessori. Dice quello che pensa senza giri di frasi.

È una rivoluzione in un mondo dove fino ad allora il cerimoniale del potere era regolato da riti consolidati, sacralizzati, dove il corpo dei regnanti era quasi invisibile (salvo sfilate di primo maggio e del 7 novembre, grandi feste, in piazza Rossa) e i giochi del potere erano segretissimi. Un esercito di veri e presunti esperti occidentali, i cosiddetti “cremlinologi” analizzava ogni parola e ogni sfumatura di frasi dei giornali ufficiali, per decifrare gli arcani della politica moscovita.

Ecco, Gorbaciov usava frasi inconsuete, pronunciate con un pesante accento meridionale, rideva in pubblico, metteva il proprio corpo in gioco, raramente faceva ricorso al gergo marxista-leninista. Fra i suoi slogan c’era anche quello di “accelerazione”, intesa come rendere meno lente le decisioni riguardanti l’economia. L’Urss stava perdendo la sfida lanciata da Ronald Reagan, un presidente americano aggressivo e ambizioso e che parlava della Russia come dell’“Impero del male”.

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In pochi mesi, Gorbaciov portò a Mosca una serie di leader del Partito delle province, anche loro cinquantenni, riformatori, so­stenitori della necessità di trovare il consenso fra il ceto di tecnici istruiti (gli “specialisti”), a scapito della retorica della classe operaia. Fra questi, il più in vista e il più dinamico era Boris Eltsin, spostato da Sverdlovsk (oggi Ekaterinenburg) al Cremlino. Della democrazia non si parlava, o meglio se ne parlava poco. Il progetto di riforma dell’economia veniva chiamato “perestrojka” ed era diventato un marchio di fabbrica del regno gorbacioviano.

Poi, nell’aprile 1986, esplose il reattore nucleare di Cernobyl. Di fronte alla catastrofe, aggravata dall’ossessiva segretezza delle procedure, il segretario del Partito comunista capisce che la libertà di parola e la democrazia sono le chiavi per cambiare tutto e per salvare (forse) l’Urss. Inizia l’epoca della “glasnost”, trasparenza. E della sfida all’apparato di potere. Sacharov, all’epoca è confinato nella città di Gorkij, dove venne esiliato da Mosca diversi anni prima. A dicembre 1986 Gorbaciov lo chiama al telefono. Gli dice che lo attende a Mosca, perché ha bisogno di lui, della sua saggezza, dei suoi consigli. Ha l’inizio l’epoca della democratizzazione e della libertà di parola.
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All’epoca andai a trovare Andrej Sinjavskij, il primo dei dissidenti. Abitava, esiliato a Fontenay-aux-Roses, a due passi da Parigi, in una vecchia casa, diroccata, con un giardino incolto e con le stanze piene di libri e delle copie della rivista che stampava “Syntaxis”. Non parlava il francese, l’unico idioma che padroneggiava era il russo.

Barba bianca, occhi grigi e saggi, mi spiegava come il vero pericolo, anzi il vero triste futuro che attendeva la Russia, non era una controrivoluzione comunista, ma una dell’estrema destra, delle forze che si richiamavano alla commistione fra la nostalgia per un uomo forte, uno zar giusto e autocrate e l’esaltazione dell’identità russa legata alla Chiesa ortodossa. La Russia, mi diceva, avrebbe imboccato la strada di contrasto all’Occidente, non più in nome del futuro predicato da Lenin ma rivolta verso il passato degli zar. Aveva previsto e intuito tutto il grande scrittore.

A Mosca la lotta per il potere si svolgeva apertamente, le elezioni erano libere (anche se non erano nati partiti alternativi a quello comunista), stava nascendo un ceto di nuovi capitalisti, gente che partiva da zero, dai piccoli commerci di merci portate dai Paesi limitrofi, per fare grandi fortune grazie alla conoscenza dei responsabili delle industrie. Aprivano le prime catene di negozi e di fast-food occidentali.

Boris Eltsin, nel frattempo, si era posto come un grande rivale di Gorbaciov e si era fatto eleggere presidente della Federazione russa, una delle repubbliche dell’Urss. In molte di queste repubbliche stavano crescendo movimenti indipendentisti. Erano particolarmente forti nei Paesi baltici: Lituania, Lettonia e Estonia, annesse all’Urss nel 1940, in conseguenza del Patto di amicizia fra l’Unione sovietica di Stalin e la Germania nazista di Hitler.

Il 1 maggio 1990, il Muro di Berlino già caduto, ero nella piazza Rossa. Nel corteo gruppi di persone portavano le bandiere appunto, lituane, lettoni ed estoni. Molti erano gli slogan e gli striscioni antigovernativi. Avevo capito che Gorbaciov non controllava più la situazione. In un appartamento minuscolo a Leningrado, ascoltavo uno scrittore parlare al telefono con Isaiah Berlin, il grande filosofo nativo di Riga, di stanza a Oxford. Gli spiegava che l’Urss era finita. Nella sua voce c’era un misto di paura e speranza.

Il 19 agosto 1991 quel che restava dell’apparato di sicurezza tentò un golpe, mentre Gorbaciov era in vacanza in Crimea. Qualche giorno dopo, a golpe fallito (grazie a Eltsin che si mise alla testa dei difensori della democrazia) ero di nuovo a Mosca. Giravo per le strade e le piazze. Ascoltavo gli oratori dei comizi improvvisati. La parola d’ordine era “normalità” e anche “vogliamo vivere come in Occidente”. Ma bastava entrare in una delle chiese aperte dopo decenni di ateismo forzato per vedere i nostalgici dell’ordine di prima del 1917. E accanto alle bandiere repubblicane, si vedevano quelle zariste.

Una sera avevo fatto amicizia con un uomo venuto dalla Siberia. Mi raccontò che da ragazzo inquieto che vestiva all’occidentale e portava i capelli lunghi dovette lasciare la sua città. Faceva scandalo. Si trasferì in Kirghizia, lontano da tutti e tutto. Furono gli anni di povertà assoluta ma anche di felicità. Ora sognava di trasferirsi in Israele, perché in Russia la democrazia e la normalità non erano possibili.

Poi andai a Vilnius capitale della Lituania. Da lì un autista mi portò a Kaliningrad ossia Koenigsberg, città natia di Kant. Erano più di quarant’anni che un giornalista occidentale non vi metteva piede. La strada da Vilnius costeggiava i kolkhoz. Sui lati, giacevano uomini ubriachi. La tomba del filosofo era abbandonata, intorno si sentiva l’odore dell’urina. Nessuno sapeva dove fosse il campanile della chiesa del fondatore della nostra etica laica. Di pomeriggio l’autista mi disse: torniamo a casa, a Vilnius.

All’indomani dovevo intervistare il presidente del rinato Stato Vytautas Landsbergis, un nazionalista privo di senso di ironia. Il suo ufficio, ampio e luminoso era pieno di gente, un via vai di messaggeri, ministri, funzionari, militari. Avevano addosso vestiti sovietici: Landsbergis un completo marrone, camicia azzurra, cravatta di raso variopinta. Il più elegante nella stanza ero io. Entrò un uomo, un giapponese, vestito di frac. Nelle mani aveva una lettera. Era la lettera dell’accredito e lui era l’ambasciatore del Sol Levante. Mi guardò. Io con lo sguardo, con gli occhi, gli indicavo il presidente. Lui non ci credette. Si avvicinò e mi porse la lettera. Nella stanza calò il silenzio, interrotto dall’urlo di Landsbergis rivolto a me: «Fuori da qui!».

Da allora, in Russia, si avverò la profezia di Sinjavskij, la Lituania è parte dell’Unione europea, Markus Wolf fu condannato da un tribunale, ma ebbe modo di spiegare i motivi delle sue scelte di vita. È sepolto a Berlino, non lontano della tomba di Rosa Luxemburg, una rivoluzionaria assassinata nel 1919, cui l’Urss non sarebbe piaciuta.

Questo articolo chiude la serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.