Il capo dello stato Tshisekedi schierato con Stati Uniti e Francia contro il filocinese Kabila. I killer vestiti da poliziotti e la milizia M23 già accusata di massacri

A un mese esatto dall'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell'autista delle Nazioni Unite, Mustapha Milambo, l'unica certezza è la morte del procuratore militare che stava indagando sull'attacco: il maggiore Assani William, in servizio al Tribunale della guarnigione di Rutshuru nel Nord Kivu, è stato assassinato il 2 marzo mentre rientrava dalla città di Goma, dove aveva partecipato a una riunione per fare il punto sull'inchiesta.

 

Qualcuno all'interno delle forze armate inviate nell'Est della Repubblica Democratica del Congo, di cui il magistrato era anche il revisore dei conti e quindi il controllore dei flussi di denaro, temeva il suo lavoro: una circostanza che rende meno probabile il coinvolgimento dei ribelli del Ruanda nell'attentato del 22 febbraio scorso e restringe i sospetti su reparti, milizie e ufficiali di esercito e polizia fedeli all'ex presidente filocinese Joseph Kabila. L'alleanza con Stati Uniti e Francia dell'attuale capo dello Stato, Félix Tshisekedi, con cui anche l'ambasciatore Attanasio manteneva ottime relazioni, così come gli altri diplomatici occidentali accreditati a Kinshasa, ha infatti aperto nell'ex colonia belga un nuovo clima da guerra fredda.

 

L'AMICO: LUCA NON SI OCCUPAVA DI MINIERE

Emanuele Gianmaria Fusi, amico fraterno dell'ambasciatore italiano, conferma a L'Espresso che Luca Attanasio, nel tempo libero, collaborava con l'associazione umanitaria della moglie Zakia Seddiki nel dare soccorso ai bambini di strada e alle donne di Kinshasa. Ma non si occupava di miniere, né dello sfruttamento di minori nella provincia di Goma. Lo stesso Fusi, titolare di un'impresa mineraria, non opera in Congo da circa due anni. «Non abbiamo al momento progetti attivi nella Repubblica Democratica», spiega l'imprenditore lombardo, «e l'ultimo era localizzato nei pressi di Matadi, a duemila chilometri di distanza dal Nord Kivu. Non siamo una multinazionale con budget miliardari, ma un'industria mineraria che opera nel rispetto dell'ambiente, dei diritti umani e del coinvolgimento delle realtà locali».

 

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Fusi in Italia è anche presidente di Novae Terrae, una fondazione che collabora con l'associazione Mama Sofia della signora Attanasio. «Ma non abbiamo mai finanziato Mama Sofia. Abbiamo il piacere di condividere alcuni progetti umanitari gestiti da soggetti terzi, ai quali abbiamo trasmesso direttamente i fondi raccolti. In un'altra occasione, l’ambasciatore mi aveva personalmente chiesto di interessarmi per il reperimento di un farmaco introvabile in Congo e molto difficile da ottenere anche in Italia, destinato alla cura di una ragazza congolese che versava in gravissime condizioni di salute. Dopo molte ricerche», aggiunge Fusi, «siamo riusciti a trovare il farmaco, grazie a una multinazionale farmaceutica coreana e lo abbiamo fatto arrivare in Congo, in modo che l’ambasciatore potesse consegnarlo ai medici congolesi che hanno in cura la ragazza. Cosa che ha fatto pochi giorni prima di lasciarci. Continuiamo a chiederci perché colpire una persona meravigliosa come Luca, ma ancora non troviamo risposte».

 

I SOSPETTI SU UFFICIALI E MILIZIE

Un testimone dell'attacco, in un video che riprendeva gli assassini in fuga, ha commentato le immagini con queste parole: «Si tolgono le divise e mettono quelle dei poliziotti». Solo qualche ufficiale dell'esercito e della polizia congolese poteva infatti sapere che il fuoristrada delle Nazioni Unite su cui viaggiava l'ambasciatore Attanasio non era blindato ed era appena partito da Goma senza scorta armata. È improbabile che nel giro di pochi minuti la notizia fosse già arrivata ai miliziani delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), la formazione accusata dalla versione ufficiale subito dopo l'attacco. È invece normale che il particolare fosse conosciuto a militari e poliziotti, tra i quali sono molti gli ufficiali rimasti fedeli all'ex presidente Kabila.

 

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La mattina di lunedì 22 febbraio l'occasione era davvero inaspettata: un diplomatico occidentale, come tutti gli occidentali buon amico di Félix Tshisekedi, stava lasciando Goma senza alcuna protezione. Tshisekedi non è solo l'attuale presidente della Repubblica Democratica del Congo. Dal 6 febbraio è anche presidente di turno dell'Unione Africana, l'organizzazione internazionale che ha sede a Addis Abeba in Etiopia. Il sorprendente omicidio di un ambasciatore europeo doveva essere un attacco frontale all'immagine del nuovo potere che si sta consolidando a Kinshasa. Secondo i funzionari governativi che nella capitale sono convinti di questa ipotesi, l'obiettivo del commando non era quindi l'Italia. Luca Attanasio, 43 anni, Vittorio Iacovacci, 30, e Mustapha Milambo sono tre delle tante vittime del conflitto sotterraneo tra Kabila e Tshisekedi. «Non significa che l'ex presidente sia coinvolto», spiega una fonte a Kinshasa, «ma tra gli ufficiali e i miliziani finanziati di nascosto da Kabila, molti temono la perdita di potere del loro protettore. Stare all'opposizione, in questa parte dell'Africa, significa essere esclusi dagli affari che contano».

 

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LO SGARBO DELL'AMBASCIATORE AMERICANO

Joseph Kabila, 49 anni, ha guidato la Rdc dal 2001 al 2019, dopo l'omicidio del padre presidente Laurent-Désiré Kabila. Dal 25 gennaio di due anni fa il vincitore delle elezioni, Félix Tshisekedi, ne ha preso il posto e ha accompagnato la prima transizione di governo senza particolari spargimenti di sangue. L'equilibro, garantito dalla nomina del premier e di alcuni ministri scelti tra gli esponenti del Fronte comune per il Congo di Kabila, è venuto meno il 29 gennaio di quest'anno con il voto di sfiducia da parte dell'Assemblea nazionale. Diversi parlamentari avevano infatti voltato le spalle all'Fcc dell'ex presidente. Joseph Kabila, molto gradito a Pechino, mantiene comunque il controllo sull'attività mineraria e continua ad avere un ampio sostegno tra gli ufficiali di esercito e polizia.

 

Come fa notare la rivista “Jeune Afrique”, oggi il potere nella Repubblica Democratica del Congo è esercitato da cinque istituzioni: il presidente, il Parlamento, il governo, l'autorità giudiziaria e Mike Hammer. Il suo cognome in inglese significa martello: Michael Hammer è l'ambasciatore degli Stati Uniti a Kinshasa, nominato dall'amministrazione Trump e tuttora in carica, che durante il 2020 ha costantemente martellato l'alleanza tra Kabila e Tshisekedi. Una strategia che esclude dal dialogo l'Fcc dell'ex presidente. Ed è ovviamente ben accolta dall'attuale capo dello Stato.

 

Il presidente Félix Tshisekedi a casa dell'ambasciatore Luca Attanasio a Kinshasa, poche ore dopo l'attacco

Il colpo definitivo risale al 22 ottobre scorso, quando gran parte degli ambasciatori di Stati Uniti e Unione Europea si sono incontrati con Félix Tshisekedi, dimostrando tacitamente il loro appoggio al nuovo corso che porterà presto il partito di Kabila all'opposizione. Lo stesso giorno Hammer ha annunciato lo stanziamento di altri sei milioni di dollari per il programma di distruzione di armi convenzionali nella Repubblica Democratica del Congo. «Da diciotto anni gli Stati Uniti cercano di promuovere la stabilità e la sicurezza, in particolare nell'Est del Congo», spiega l'ambasciatore americano: «Gli Stati Uniti hanno migliorato la sicurezza di ottantuno depositi di munizioni, addestrato circa duecento custodi e distrutto più di millesettecento tonnellate di munizioni e centottantamila armi in eccesso».

 

Il sequestro e la distruzione di fucili d'assalto e ordigni è un'operazione necessaria al termine di ogni conflitto. Ma nei territori a Nord e a Sud di Goma questo significa disarmare anche i miliziani con cui la fazione di Kabila fa il suo gioco sfruttando il disordine. L'esercito privato più famoso si chiama M23 e già nel 2017 era stato accusato dall'organizzazione internazionale Human Rights Watch della morte indiscriminata di decine di civili, durante le proteste contro Joseph Kabila nei suoi ultimi mesi di mandato.

 

ANCHE LA FRANCIA SCENDE IN CAMPO

Le settimane che precedono la morte dell'ambasciatore Attanasio sono cruciali. Da gennaio, infatti, il presidente Félix Tshisekedi mostra apertamente di voler uscire dall'orbita cinese, dove il suo predecessore aveva condotto la Repubblica Democratica del Congo. La rinata collaborazione con gli Stati Uniti prevede ora percorsi di addestramento militare congiunto, l'autorizzazione ad attività della Cia sul campo e, in futuro, la possibile apertura di una base di Africom, il comando americano delle operazioni in Africa.

 

Ma dove si muove Washington, la Francia non resta a guardare. Il 5 gennaio a Kinshasa l'ambasciatore François Pujolas ha inaugurato l'anno accademico della Scuola di guerra di Kinshasa: è il nuovo centro di addestramento che formerà i futuri comandanti congolesi, sotto lo stretto controllo di Parigi. L'obiettivo non è solo contrastare la Cina nelle future concessioni minerarie per coltan, cobalto, gas e petrolio, ma anche la sua penetrazione strategica nel cuore dell'Africa.

 

Quattro giorni dopo l'attacco sulla strada tra Goma e Rutshuru, il presidente Tshisekedi ha infatti parlato al telefono con la vicepresidente americana Kamala Harris per quasi un'ora. «Entrambi sono d'accordo sulla necessità di collaborare per garantire la pace nell'Est della Repubblica Democratica del Congo e nella regione», conclude il suo comunicato Mike Hammer. Forse il 22 febbraio, sul piccolo convoglio delle Nazioni Unite con l'ambasciatore Attanasio e i suoi accompagnatori lasciati senza scorta, la nuova guerra fredda ha davvero sparato i suoi primi colpi.