Lo stallo, le polemiche, le gaffes, i ritardi, poi le tensioni con il vertice e il mini-direttorio, le telefonate, le cene "segrete", le minacce di dimissioni. Non c’è che dire: passata la sbornia della vittoria, in quindici giorni intorno alla neo sindaca di Roma Virginia Raggi, non si sa se per sua scaltrezza o ingenuità, si son visti fiorire tanti colpi di scena quanti nemmeno i detrattori di M5S nei loro sogni più sfrenati. Una sceneggiatura tipo House of (five) Stars.
Una partita, quella della capitale, che quanto a equilibri di potere è in realtà ancora tutta da giocare: così come ancora tutto da scrivere è il ruolo della neoeletta, oscillante per ora tra quello di un'aspirante nuova Di Maio e quello di una riedita Pizzarotti in salsa romana. Studia da leader, ma ha anche fame di autonomia, la sindaca che giovedì alle 15 e 30 ha convocato la sua prima Assemblea capitolina con l’obiettivo (tutt’ora non scontato) di presentare l’intera giunta. O addirittura, una soluzione stabile alle tante tensioni di questi giorni.
La sfilza di incontri con le persone di cui si fida e con il mini direttorio, ma anche la telefonata di Casaleggio jr per spingerla a "chiudere" il circo dei nomi stanno contribuendo a sciogliere il guazzabuglio che si è creato la settimana scorsa. Quando la sindaca ha scelto il fedelissimo Daniele Frongia a capo di gabinetto, nonostante i dettami della legge Severino, e Raffaele Marra a suo vice, nonostante il robusto passato di incarichi con Alemanno, Polverini, Panzironi. Nomine sulle quali Raggi avrebbe proceduto in autonomia, restia ad acconciarsi invece alle controproposte che le venivano dagli interlocutori interni al movimento. Alla fine a quanto pare la nomina di Marra è saltata, e Frongia finirà a fare il vice sindaco. Ma non c’è ancora accordo su altre caselle, come appunto quella di capo di Gabinetto e di assessore al Bilancio.
Nonostante i molti incontri con cui si è aperta la settimana, e la volontà comune di abbassare la temperatura negando una qualche "guerra fra correnti", la soluzione non è ancora arrivata. Ovviamente non è solo una questione di nomi, come si intuisce anche solo dalla quantità di informazioni e dettagli in circolazione: piuttosto, si tratta di stabilire chi comanda in una città che è considerata laboratorio per la conquista di Palazzo Chigi, e che è a sua volta divisa in fazioni. Ognuno dunque gioca un pezzo della propria partita, da Di Maio appunto, a Marcello De Vito, il più votato a Roma (ma perdente nella disfida per le comunarie), passando per le parlamentari romane Roberta Lombardi e Paola Taverna.
In mezzo, naturalmente, ci finisce subito l’esame di fedeltà al movimento, e il famoso codice di Comportamento, sul quale peraltro (ironia della storia) Raggi è stata assai meno ritrosa della sua collega torinese Chiara Appendino.
Ecco, adesso che proprio quel codice sembra a un passo dal ritorcersi contro sindaca di Roma, val la pena di segnalare come fosse già tutto in qualche modo scritto, dentro una certa ambiguità con la quale Raggi rispose alle obiezioni dell’Espresso circa la propria autonomia nel nominare i collaboratori.
"Io ritengo di essere autonoma", replicò la sindaca: "Ritengo di poter validamente interpretare l’articolo (7 del codice etico, ndr) nel senso che quelle che sono le persone che collaboreranno con me passeranno attraverso un parere di questo staff, ma poi sarà io a nominarle". Il che, come si sta vedendo, è vero fino a un certo punto: ma Raggi ne era consapevole, quando parlava così?