Discendente di Giolitti. Figlio del giudice che condannò Previti. Ecco chi è  il nuovo presidente di Veneto Banca. E cosa rischia con l’arrivo di Atlante

Il nuovo presidente di Veneto Banca Stefano Ambrosini
Mannaggia, la storia. Non è la prima volta che nella famiglia di Stefano Ambrosini, nuovo presidente di Veneto Banca, gli scandali del sistema creditizio giocano un ruolo determinante. La sua bisnonna materna si chiamava infatti Camilla Giolitti ed era la pronipote di Giovanni Giolitti, il politico più longevo e importante del Regno d’Italia. Il suo primo mandato da capo del governo, nel 1893, fu bruscamente interrotto dalle accuse che lo colpirono durante lo scandalo della Banca Romana, uno dei più gravi che la letteratura mondiale ricordi. A Giolitti ci vollero dieci anni per superare l’oblio, cosa che gli riuscì nel 1903, quando iniziò il secondo dei suoi cinque mandati da presidente del Consiglio, dando il via a quella che gli storici definiscono “era giolittiana” .

Un secolo e passa più tardi, la nuova crisi ha fornito invece ad Ambrosini, 47 anni, l’occasione di cominciare una carriera a sorpresa, quella di banchiere. Il 5 maggio scorso l’assemblea di Veneto Banca ha infatti dato il benservito al consiglio di amministrazione in carica, nominandolo presidente. In un clima incandescente, le due fazioni di azionisti si sono reciprocamente accusate di connivenze con il padre-padrone Vincenzo Consoli, allontanato dalla Banca centrale europea (Bce) dopo anni di dominio incontrastato. Adesso, però, altre scadenze incombono: è partito l’aumento di capitale da un miliardo di euro che dovrà salvare l’istituto.

Già si sa che la parte del leone toccherà al fondo Atlante, creato dal sistema bancario per scongiurare nuovi fallimenti dopo quelli dei quattro istituti commissariati a fine autunno. Se alla Popolare Vicenza il fondo Atlante si è sobbarcato per intero la ricapitalizzazione, a Montebelluna gli imprenditori veneti sperano di continuare a pesare. E così hanno puntato su Ambrosini, al quale è affidato il compito di marcare un «segno distintivo» rispetto alla crisi vicentina, conservando una quota nelle mani dei soci che saranno disponibili a investire ancora.
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Poco noto al grande pubblico, Ambrosini si è così ritrovato sugli scudi in una regione che lui, torinese, aveva cominciato a bazzicare da un po’. Il motivo? La crisi. In Veneto, dove la recessione ha portato alla luce le magagne di banche che si dicevano solidissime, e che invece erano alla frutta, il curriculum e le relazioni che il neo presidente si è costruito nel tempo hanno infatti trovato un terreno molto fertile. Professore associato a 31 anni, ordinario a 36 (insegna diritto fallimentare all’Università del Piemonte Orientale), Ambrosini fa parte fin dalla nascita di quella borghesia che a Torino si vede poco ma comanda su tutto.

Lo zio Franco Ricca era uno studioso poliedrico, ideatore e poi direttore del Museo d’Arte Orientale, nonché ai tempi del Pci eminenza grigia in Piemonte dell’ala migliorista di Giorgio Napolitano, un grande amico. Il papà Giangiulio è stato invece uno dei magistrati di punta del tribunale cittadino, dove negli anni Settanta ha lavorato con Luciano Violante e Giancarlo Caselli, ha contribuito alla nascita di Magistratura Democratica - corrente progressista delle toghe - ed è stato il primo segretario generale della Consulta nazionale antidroga. Nel 2006, in qualità di presidente della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, firmò la condanna definitiva di Cesare Previti a sei anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari, al termine del lungo processo sul caso Imi-Sir.

Più che ai rapporti familiari, quando parla della sua carriera Ambrosini preferisce però attribuirne i successi al lavoro e al privilegio di aver studiato con ottimi maestri, fra i quali indica il giurista ed ex partigiano Gastone Cottino, chiamato il “barone rosso”. Fin dai primi passi da avvocato si specializza in crisi d’impresa, un mestiere che gli permette di entrare in un business redditizio, i commissariamenti, sia quelli decisi dal tribunale, sia quelli ordinati dal ministero dello Sviluppo. Il suo curriculum quantifica in 30 i concordati preventivi firmati come “commissario giudiziale”, in 300 i fallimenti su cui ha lavorato, in un’ulteriore trentina le amministrazioni “straordinarie e coatte” che lo hanno visto protagonista.
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Il fiore all’occhiello è la Carrozzeria Bertone, dove arriva nel 2008, nominato dal ministro Pierluigi Bersani. L’intuizione di venderla alla Fiat, che ci costruisce la nuova fabbrica Maserati, è in realtà di Lilli Bertone, vedova del fondatore Nuccio, e al lieto fine contribuisce in maniera fondamentale uno degli altri commissari, Beppe Perlo, ex manager della casa automobilistica. Ambrosini, però, può legittimamente vantare di aver chiuso quella che ha definito «la procedura dei record», visto che le richieste dei creditori sono state soddisfatte al 90 per cento.

Da lì arriva il salto, che lo porta al centro di dossier sempre più caldi, capaci di generare parcelle con molti zeri, oltre che un altro mandato di prestigio, la partecipazione alle commissioni per la riforma della legge fallimentare istituite nel 2012 e nel 2015. Dal suo studio passa il commissariamento di una società consortile che raccoglie i rifiuti in Piemonte, l’Asa Servizi, vicenda che scatena le tensioni fra il presidente regionale Sergio Chiamparino e i Comuni coinvolti. Il tribunale di Pavia lo nomina commissario della Fondazione Maugeri, l’istituto ospedaliero al centro del processo per corruzione a carico di Roberto Formigoni. A Imperia diventa liquidatore del Porto di Imperia, progetto del costruttore Francesco Bellavista Caltagirone. Nel settembre 2011 l’allora sottosegretario Gianni Letta lo vuole come liquidatore della vecchia Alitalia.

Nel mondo delle banche la svolta, però, è riconducibile al 2008, quando entra nel Consiglio generale della Compagnia di Sanpaolo, la fondazione che figura come principale azionista del colosso Intesa Sanpaolo. La sua nomina, in area Pd, fa storcere il naso ai partiti più a sinistra, che miravano alla stessa posizione. Qui c’è un dettaglio fondamentale: il consiglio generale è un organo d’indirizzo, senza compiti di gestione né della fondazione né tanto meno di Intesa. Lui così può continuare a fare il mestiere di ristrutturatore d’aziende, senza entrare in conflitto d’interessi con l’incarico svolto nella Compagnia. Certamente, però, l’importante poltrona non danneggia il suo business professionale, considerando l’elevato tasso di imprese indebitate proprio con Intesa, la più grande banca italiana. E, infatti, non si contano i convegni sulla “gestione delle crisi aziendali” ai quali partecipa sul territorio, affiancato dai dirigenti di Intesa e di altre banche.

Intanto il suo nome inizia a circolare anche in Veneto. Prima si occupa della ristrutturazione delle Cartiere Burgo e delle Acciaierie Beltrame, poi viene nominato commissario della Sangalli Vetro e dei Grandi Molini di Marghera. Nel frattempo, apre uno studio a Padova. Per inciso: molti imprenditori veneti avevano comprato azioni di Popolare Vicenza e Veneto Banca utilizzando ingenti prestiti avuti dalle due banche, che ora non possono più restituire perché le azioni non valgono più nulla. Le chiamavano operazioni baciate. Ambrosini assiste proprio una coppia di imprenditori, i fratelli Ravazzolo, che avevano investito nella Popolare Vicenza 80 milioni. Ha avviato un tavolo tecnico con il nuovo management per affrontare la situazione, per il momento senza esito.
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E così, quando gli imprenditori soci di Veneto Banca cercavano un presidente autorevole e indipendente per trattare con le autorità, la scelta è caduta sul professore torinese. Si vedrà il 24 giugno, al termine dell’aumento di capitale, quanti di loro alla fine saranno davvero azionisti dell’istituto. Nel primo incontro con Atlante, futuro socio di controllo, si dice che Ambrosini abbia sgomberato il campo da equivoci: se servirà per fare chiarezza, il mio mandato è a disposizione, avrebbe detto. Per ora non chiediamo nulla, la risposta. Probabilmente si valuterà la situazione quando i soldi saranno sul tavolo. Perché dopo tanti pasticci, in banca non può più valere quanto scrisse l’antenato Giolitti sulle leggi e gli italiani: «Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito».