La guerra scoppiò due anni dopo la dissoluzione della cortina di ferro. Ma il germe dello sciovinismo che avrebbe distrutto il Paese fu seminato dal leader serbo nei giorni in cui da Berlino a Praga si sognava la libertà

Slobodan Milosevic
«Tutto quello che vedete, la spianata qui di fronte, era strapiena di persone, l’atmosfera era elettrica, ma non penso che proprio qui, come si racconta, sia iniziata la fine della Jugoslavia», assicura il serbo Ljubomir Maric, cinquantenne arrivato apposta anche quest’anno per la cerimonia che ricorda la sconfitta dei serbi a opera dei turchi, nel 1389. Con la mano, indica intanto una campagna oggi deserta di persone, intervallata da piccoli capannoni e casupole.

Lì vicino, il pope ortodosso Aleksandar, avvolto in una lunga tunica nera, sudato e indaffarato, è impegnato negli ultimi ritocchi per la celebrazione del “parastos”, la funzione religiosa per commemorare gli eroi caduti in un combattimento avvenuto sei secoli fa, tra croci e bandiere serbe. «La fine della Jugoslavia? Gazimestan non c’entra, tutto è cominciato prima e ha altre cause», minimizza anche lui, senza scendere nei dettagli.

Ljubomir e il sacerdote Aleksandar che però calpestano una terra dove, per molti versi, si fece la storia, togliendo un’altra carta a un castello destinato a crollare di lì a pochi anni. Siamo a Gazimestan, in Kosovo, al monumento celebrativo prossimo alla Piana dei merli - dove si combatté la battaglia campale tra serbi e turchi, nel 1389 - nell’ex provincia serba auto-dichiaratasi indipendente da Belgrado un decennio fa, ultimo frammento della Jugoslavia a “saltare”.

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Gazimestan che trent’anni fa entrò di prepotenza nelle cronache e negli annali, in quel 1989 in cui l’Europa centro-orientale iniziava a scrollarsi di dosso il giogo di regimi comunisti più o meno tirannici, chiedendo libertà e democrazia, standard di vita più alti, una esistenza all’occidentale, senza il fiato sul collo di Stasi e Securitate. Proprio allora in Jugoslavia, Paese che aveva goduto di un regime assai meno oppressivo, le lancette del progresso si muovevano invece all’indietro. E da lì a un paio d’anni il Paese, definitivamente imploso, sarebbe precipitato nel turbine delle guerre fratricide.

Alcuni germi della dissoluzione furono inoculati nel corpo già malato della Jugoslavia proprio qui, il 28 giugno 1989, a sole ventiquattr’ore dallo storico taglio della Cortina di ferro a Sopron, per mano del ministro degli Esteri magiaro Gyula Horn e del suo omologo austriaco, Alois Mock. A Gazimestan, sotto l’alta torre che ricorda i caduti serbi nel 1389, si cominciarono invece ad alzare nuovi muri. A farlo fu un leader lanciatissimo verso il potere assoluto, quel giorno nelle vesti di apprendista “stregone”, Slobodan Milosevic.

Milosevic, ormai l’uomo forte di Belgrado, eccitò i serbi lì riuniti. Lo fece con malizia, in un discorso di mezz’ora, punteggiato di richiami all’unità, alla solidarietà e alla fratellanza, vecchi valori con sempre minor presa. Ma la frase che rimase negli annali fu una sola, di tenore diverso. «Sei secoli dopo», disse Milosevic ai serbi, «oggi siamo di nuovo impegnati in battaglia e alla vigilia di battaglie. Esse non sono armate, ma anche quelle non possono essere escluse», il passo più citato del discorso di Slobo, rivolto a una moltitudine pronta a bere, forse inconsapevolmente, dal pericoloso calice del nazionalismo.

Fu un presagio, un’evocazione maldestra, una chiamata alle armi? Milosevic, finito poi sotto processo all’Aja per crimini di guerra, assicurò sempre di essere stato mal interpretato, che i suoi detrattori si erano concentrati su una citazione «fuori dal contesto», in quello che fu un «discorso di pace». Ma quelle parole rimangono per molti, a posteriori, l’orazione funebre per la Jugoslavia morente, l’elegia dell’idea della Grande Serbia, anche se pochi al tempo compresero.

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Anche i serbi del Gazimestan, nel 1989, non colsero del tutto la portata del discorso, assicura anche Mladen Vukicevic, architetto, seduto in un caffè nella parte nord di Mitrovica, quella serba, la Berlino in miniatura divisa in due tra serbi e albanesi non da un muro, ma dal fiume Ibar, altro nefasto effetto del lungo collasso della Jugoslavia. «Eravamo lì perché ci sentivamo minacciati e non per nazionalismo», rammenta Mladen. A spingere tanti ad andare a sentire Milosevic, l’impressione e il timore di essere «sopraffatti dalla maggioranza albanese» nel Kosovo e «chiedevamo aiuto» per quella che sarebbe stata una «nuova battaglia, questa volta tra serbi e albanesi». E «Milosevic ha piegato» il tutto ai suoi fini, presentandosi come il difensore dei serbi.

Non fu però la semplice e allo stesso tempo storica orazione di Milosevic a far precipitare la Jugoslavia nel caos. «Col senno di poi, è possibile dire» che il discorso del Gazimestan fu solo «un segno dell’imminente collasso, ma non sono sicuro di quanti al tempo lo pensarono», spiega Tim Judah, corrispondente dell’Economist e fra i più profondi conoscitori dei Balcani, reporter sul campo durante l’implosione della Jugoslavia.

Era però chiaro anche in quei giorni «che si trattava di un evento enorme e importante nella storia jugoslava, che contribuì ad accelerare il sentire di sloveni e croati». Che pensarono «dobbiamo uscirne, altrimenti faranno con noi ciò che stanno facendo agli albanesi». Nessuno, però, «aveva previsto il sanguinoso collasso» che sarebbe arrivato nel giro di due anni, aggiunge Judah. E «nessuno», quel giorno «pensò che la guerra stesse arrivando. D’altronde il conflitto non cominciò due mesi dopo, ma due anni più tardi.

La gente, nel 1989, non aveva idea di cosa sarebbe accaduto nel 1991, come noi non abbiamo idea di cosa succederà nel 2021». Sicuramente non lo anticiparono le cancellerie europee e neppure i servizi segreti di Washington, ha sottolineato il settimanale belgradese Nedeljnik, che ha ripubblicato nei giorni scorsi un cablogramma Cia preparato solo poche settimane dopo Gazimestan. Gli 007 Usa scrissero che, malgrado tutto, «c’è solo una chance remota che il crescente e diffuso nervosismo possa portare alla disintegrazione del Paese nei prossimi anni», anche se come precondizione per il worst-case scenario gli americani indicarono proprio «la secessione delle repubbliche settentrionali anti-Milosevic», Slovenia e Croazia, quello che effettivamente accadde qualche tempo dopo.

Ma in quel 1989 furono anche altri, incluse le menti più brillanti e la stessa Europa, a non capire che la Jugoslavia si stava avviando verso una morte tragica. «Nel 1989 il nazionalismo era al suo apice, specialmente nella Serbia di Slobodan Milosevic», rammenta la grande scrittrice Slavenka Drakulic. Ma «niente ci aveva preparato al collasso della Jugoslavia e al bagno di sangue che ne sarebbe seguito», aggiunge l’autrice croata più tradotta al mondo, sintetizzando quello che tanti, nei Balcani, dicono quando vengono interrogati su cosa si attendessero, in quei mesi bui: «Non certo la guerra», la replica più comune.

Lo conferma Drakulic, tornando con la mente a trent’anni fa. «Malgrado il linguaggio dei politici e dei media, che era bellicoso, era difficile credere che una guerra fosse possibile. Avevamo subito, almeno la mia generazione, una sorta di lavaggio del cervello attraverso l’ideologia della “fratellanza e unità”», spiega. «Penso», continua Drakulic, «che la gente non credesse al conflitto neppure quando esso era già cominciato in Croazia, in Bosnia-Erzegovina, in Kosovo».

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Ma perché il 1989 fu così diverso, per la Jugoslavia, rispetto al resto dell’Est? La più grande differenza tra i due mondi è che «la Jugoslavia, senza occupazione sovietica, non aveva un nemico esterno», spiega il politologo Florian Bieber, fra i massimi esperti dei Balcani. In più, «i movimenti politici nell’Europa centrale erano democratici e nazionalisti, con un nazionalismo diretto verso l’esterno, non all’interno.

E la Jugoslavia non conosceva quelle forme di risentimento di altri Paesi comunisti. I suoi cittadini potevano viaggiare, criticare liberamente il governo e partecipare a una società consumistica; per questo le richieste di libertà democratiche erano limitate». Il risultato fu che «quando Paesi come Romania e Bulgaria celebravano con entusiasmo la liberazione dal comunismo, per noi fu l’anno più tragico», confessa nella sua casa nel cuore di Belgrado l’intellettuale serba Vesna Pesic, sociologa e fra i leader dei movimenti contro Milosevic, ancora oggi una delle menti più acute in Serbia.

Un anno funesto, quel 1989, perché ormai era stato dato fuoco alle micce collocate nelle fondamenta di uno Stato con tante ombre, ma anche con molte luci. «La Jugoslavia era speciale, era fuori dalla Cortina di Ferro, sperimentavamo l’autogestione», la via jugoslava al socialismo, «avevamo i passaporti, potevamo viaggiare», sintetizza Pesic. Che infine, da ex dissidente anche ai tempi di Tito, ammette: «Sono nostalgica, mi manca quella Jugoslavia».

Manca a tanti, la Jugoslavia, nei Balcani - in particolare in Serbia, Bosnia, Macedonia, meno in Slovenia e Croazia - come hanno svelato tanti sondaggi in questi anni. Ma la nostalgia non è per quella Jugoslavia agonizzante degli anni Ottanta, inizio Novanta. Nove anni dopo la morte di Tito - il padre della nazione socialista pianto sinceramente nel 1980 da centinaia di migliaia di persone a Belgrado - la Federazione era già gravemente malata, piena di metastasi, soprattutto nel tessuto economico.

Leggi, debito estero alle stelle, disoccupazione in crescita, recessione e inflazione, standard di vita crollati, un sistema economico fragile e inefficiente, perché basato sul debito, fiaccato dalle crescenti ritrosie delle repubbliche più sviluppate, Slovenia e Croazia, a sostenere il resto del Paese, più arretrato. E quando l’economia non funziona, anche la politica arranca e lascia spazio a populismi e nazionalismi. Il delicato equilibrio dei poteri interni, in Jugoslavia infine fu irrimediabilmente spezzato nel 1989, quando Milosevic, avviato a diventare il “vozd”, duce serbo, riuscì a piazzare i suoi uomini in Montenegro e a insediare governi di suo gradimento nelle province della Vojvodina e soprattutto in Kosovo.

Mosse che portarono alla resistenza popolare e allo sciopero generale dei minatori albanesi in Kosovo, in difesa dell’autonomia di Pristina, “soffocata” da Slobo proprio poco prima del discorso del Gazimestan, dando il là a una lunga e complicata spirale discendente ormai irreversibile. Che coinvolse tutte le repubbliche, tra responsabilità incrociate, non solo di Belgrado, ma anche di Zagabria, in una minacciosa esaltazione collettiva Ma Milosevic non fu l’unico colpevole.

Certo, assicura Pesic, «della dissoluzione dello Stato federale e soprattutto della guerra, la Serbia e Milosevic sono fra i maggiori responsabili», ma le pulsioni per il disfacimento dell’unità statale «erano forti anche in Slovenia e in Croazia». Il risultato fu la distruzione di un «grande e bel Paese e di un buon socialismo, con maggior libertà in confronto a quelle riconosciute ora in questi Paesi nazionalistici» di oggi, afflitti da «un capitalismo predatorio».

Ma la Jugoslavia si sarebbe potuta salvare? «Se ci fosse stata una élite, specialmente in Serbia, interessata a riformare la Jugoslavia attraverso il compromesso, allora sì o almeno si sarebbe evitata una dissoluzione violenta», assicura Bieber. Non andò così e «il successo dei partiti nazionalisti in Slovenia e Croazia è la conseguenza diretta delle politiche antagonistiche di Milosevic.

La maggioranza, a Zagabria e a Lubiana, era contraria all’indipendenza nel 1990. Ma cambiò idea quando subì le politiche repressive e nazionalistiche della Serbia». Qualcuno ci provò, a mettersi di traverso, ricorda Pesic, che rievoca l’esperienza dell’Associazione per l’Iniziativa Democratica Jugoslava (Ujdi), partito di cui fu una delle anime e che già nel 1989 voleva riformare e «democratizzare» la Federazione, in opposizione «ai nazionalismi sloveni, croati, serbi». «C’era un piccolo segmento di popolazione che voleva impegnarsi, modernizzare il Paese», combattere contro «l’ideologia tribale» del nazionalismo. Ma l’avvelenata retorica di luoghi come Gazimestan - e di tanti altri casi simili - alla fine ebbe la meglio. E nell’ex Jugoslavia, trent’anni dopo, non c’è ragione di festeggiare.

Questo articolo è il quarto della serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Sul prossimo numero Budapest e l’Ungheria. Oggi preda dell’estremismo di destra.